11 Dicembre 2013
Le font non sono il semplice disegno di lettere dell’alfabeto ma costituiscono un vero e proprio veicolo di emozioni. Ed è proprio in virtù di questa loro innata capacità comunicativa che, in molti casi, sono finite per diventare icone universalmente riconoscibili, scolpite per sempre, nel bene e nel male, nell’immaginario collettivo di ogni epoca e latitudine (alzi la mano chi ha pensato all’Helvetica).
Si racconta che al Reed College a Portland nell’Oregon «ogni cartellone, ogni etichetta di ogni singolo cassetto erano elegantemente scritti a mano.>
Così uno studente fuori corso si iscrisse ad un corso di calligrafia che gli permise di imparare a distinguere i caratteri con e senza grazie, a variare la quantità di spazio tra le lettere, e capire cosa rende grande la grande tipografia. Di lì a dieci anni, Steve Jobs – così si chiamava quel tizio – aveva progettato il primo computer Macintosh, una macchina con una particolarità assolutamente inedita: un’ampia gamma di font.
Oltre ai caratteri ormai noti come il Times e l’Helvetica, Jobs ne aveva introdotti di nuovi, curandone molto l’aspetto e i nomi. Li aveva chiamati come le sue città preferite, per esempio il Chicago e il Toronto. Aveva cercato di renderli originali e aggraziati come la calligrafia che aveva avuto occasione di ammirare dieci anni prima, e almeno due – il Venice e il Los Angeles – parevano scritti a mano.
Fu l’inizio di un’autentica rivoluzione nel nostro rapporto quotidiano con le lettere e i caratteri tipografici. Un’innovazione che, nel giro di circa un decennio, avrebbe inserito la parola «font» – fino ad allora un astruso termine tecnico riservato al settore della progettazione grafica e della stampa – nel vocabolario di ogni utente di computer.
Per chi vuole approfondire: “Sei proprio il mio typo. La vita segreta delle font” / Autore: Simon Garfield
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